“Bilal arriva subito, stava riposando perché ha fatto il turno di notte a Casa Abba ed è rientrato da poco”, avvisano Chiara e il marito Diego accogliendoci nel giardino della loro casa sui primi colli di Bologna. La città è due chilometri di tornanti più in basso ma sembra lontanissima, nello spazio e nel tempo: la casa è un’oasi di verde e di suoni della natura sotto il sole tiepido della mattinata di maggio.
Il progetto Vesta (http://www.progettovesta.com/) a cui ha partecipato Bilal è ufficialmente terminato, ma non è difficile comprendere perché il ragazzo passi ancora volentieri del tempo in questa casa e consideri un punto di riferimento la famiglia che l’ha ospitato per quasi un anno. Quando anche lui si presenta in giardino, sorridente ed energico nonostante le poche ore dormite, cominciando a raccontare la sua storia in un italiano sicuro, è semplice capire perché anche Chiara Sibona e Diego Passini si siano tanto affezionati a questo giovane rifugiato senegalese durante l’esperienza di accoglienza in famiglia.
L’integrazione che nasce in famiglia
Vesta, ideato dalla cooperativa sociale Camelot e sviluppato con il Comune di Bologna, offre infatti l’opportunità di ospitare nella propria casa rifugiati neomaggiorenni che escono da strutture SPRAR per minori stranieri non accompagnati per avviarsi, in un’età delicata, ad affrontare la vita adulta senza la propria famiglia in un paese straniero. “Possono candidarsi ad accoglierli single, coppie di fatto, coniugi con o senza figli che abbiano nella propria abitazione una stanza privata da mettere a disposizione e siano ben motivati a intraprendere un’esperienza sicuramente impegnativa ma che può regalare molto – spiega Marina Misaghi Nejad di Camelot, che ci accompagna nella visita –. Nel progetto Vesta vengono inseriti i ragazzi che hanno dimostrato, dopo la prima parte del percorso di integrazione nelle strutture territoriali, di essere in grado di proseguirlo in un contesto familiare. Fino ad oggi sono stati 29 i ragazzi ospiti di altrettante famiglie della Città Metropolitana di Bologna e la gran parte di loro, a progetto concluso, ha già trovato un alloggio intraprendendo una vita autonoma”.
I passaggi necessari, previsti da Camelot e dal Comune di Bologna per il buon avvio e lo svolgimento del progetto di integrazione, ce li descrivono Chiara e Diego qua e là, nelle pieghe della chiacchierata. Ci accorgiamo presto però che sono soltanto “dettagli”, perché essenza di questa esperienza sono l’amicizia, l’affetto, la fiducia che si sono instaurati tra questi due pensionati bolognesi curiosi del mondo e l’ormai diciannovenne Bilal, che prima di arrivare in Italia, ancora minorenne, è stato pescatore e meccanico in Senegal e Gambia.
Un feeling scattato nei primi giorni insieme
“Nel 2016 abbiamo scoperto Vesta grazie alla mia amica Amelia Frascaroli, all’epoca assessore al Comune di Bologna, che sapeva come ci stesse a cuore il terribile problema dei migranti minorenni – racconta Chiara –. Abbiamo così richiesto di aderire al progetto e partecipato agli incontri propedeutici di formazione che ci hanno permesso di saperne di più sulle normative dell’integrazione e sugli aspetti psicologici e culturali che avrebbe implicato accogliere in casa un giovane straniero. Poi abbiamo iniziato a fare conoscenza con Bilal, che fino ad allora aveva abitato nella struttura SPRAR Minori non accompagnati di Valgattara, vicino a Monghidoro. La prima volta che l’abbiamo incontrato siamo rimasti insieme poche ore, che abbiamo impiegato per cucinare uno strudel in compagnia. La seconda occasione è stato con noi un weekend, in cui gli abbiamo fatto conoscere la famiglia e i nipoti. Dopodiché, visto l’esito positivo degli incontri a cui avevano partecipato anche gli operatori di Camelot per verificare che tutto fosse a posto, si è trasferito a casa nostra, nella stanza che avevamo preparato per lui”.
Studio e lavoro per diventare autonomo
Bilal e Diego annuiscono insieme, ricordando i piccoli ma grandi eventi menzionati da Chiara. Poi è Bilal a raccontare come è trascorsa la sua vita in questo angolo che sembra fuori dal mondo. E forse un poco lo è davvero per chi, come lui, si sposta con i mezzi pubblici. “I primi tempi frequentavo la terza media al CPIA di San Lazzaro di Savena, il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti. Il bus qui sui colli non passa spesso, soprattutto la sera dovevo rientrare presto perché non ci sono navette che salgono dopo le 20 – spiega Bilal -. A scuola comunque non ho mai avuto problemi e ho preso subito il diploma, anche se studiare non è proprio la mia passione”. Ci pensa Chiara a sostenerlo: “È sempre stato molto bravo anche se la sua vera passione era passare il pomeriggio a scoprire la città”. “Mi sono fatto diversi amici, anche italiani, che frequento spesso a Bologna – aggiunge Bilal –. Dopo la scuola ho cercato un lavoro: ho trovato un tirocinio a Funo ma è durato poco, facevo il muratore ed era molto pesante. Il cantiere poi si trovava a Ferrara e si finiva di lavorare tardi, per cui avevo difficoltà con gli spostamenti e il rientro qui a casa. Ho fatto anche la scuola da elettricista presso Oficina (un ente di formazione delle Acli, ndr): molto interessante, ma gli altri corsisti erano a un livello molto avanzato per me che ero principiante”. Nel frattempo Bilal sta cercando di prendere la patente di guida per essere più autonomo, ma i “trabocchetti” dei quiz gli stanno creando qualche difficoltà.
Come genitori e figlio, un rapporto basato sull’affetto e la fiducia
Ne approfittiamo per complimentarci per il livello del suo italiano. “L’ho imparato grazie a loro, in casa”, dice accennando a Chiara e Diego. Poi fa una pausa e abbassa lo sguardo un po’ intimidito: “Mi sento come se fossi loro figlio”. “E noi ci sentiamo suoi genitori”, risponde sorridente la coppia che lo ha ospitato. Il giovane rifugiato è innamorato anche di Bologna, e non lo nasconde: “Mi piace la gente qui, la storia della città. Vorrei davvero diventare bolognese”. Chiara, come una madre orgogliosa, aggiunge: “Conosce la storia di Bologna meglio di molti ragazzi nati qui, è stato anche al sacrario di Sabbiuno qui sui colli e sa che cos’è successo durante la guerra. E poi ha imparato a cucinare il cibo italiano, ha partecipato a un laboratorio alimentare organizzato al convento dell’Osservanza. In casa ci ha sempre dato una mano nei piccoli lavori, l’anno scorso ha anche aiutato mio figlio a fare la legna e a tagliare l’erba in giardino. L’estate scorsa siamo stati al mare in Abruzzo, dove abbiamo una casa, e quest’anno ci torneremo con lui. È stato molto bene con noi e il resto della famiglia, aveva voglia di mare. In inverno è stato anche padrone di casa per ben quindici giorni, quando noi siamo stati a fare un viaggio: gli è toccato spalare la neve per uscire di casa. Crediamo che lasciarlo qui da solo a gestire la casa sia stata una grande prova di fiducia, ma non abbiamo mai avuto alcun dubbio su di lui”.
Di recente i genitori “adottivi” hanno potuto parlare al telefono con la vera mamma di Bilal, rimasta in Senegal con altri figli. “Ci siamo parlati in francese – spiega Chiara –. L’abbiamo tranquillizzata dicendole che va tutto bene”. “Mia mamma non sapeva che ero partito per venire qui, non sapeva nulla del mio viaggio. Le ho spiegato che l’Italia è un posto incredibile, che non ha niente a che fare con casa nostra”, aggiunge Bilal, che ha impiegato sei mesi per completare la sua difficile migrazione.
Il sogno di diventare mediatore culturale
Il suo percorso di integrazione ha invece avuto una svolta importante a inizio 2018, quando ha trovato lavoro a Casa Abba, un progetto di accoglienza per minori migranti promosso dalla cooperativa DoMani all’Eremo di Ronzano, sempre sui colli di Bologna. “Sapevamo che il sogno di Bilal era fare il mediatore culturale – racconta Chiara –, così abbiamo mandato il suo curriculum alla cooperativa. Il colloquio è andato bene e lo hanno assunto in prova”. “Faccio molto spesso l’operatore notturno ma il lavoro mi piace, mi sento portato per aiutare chi si è trovato nelle mie stesse condizioni – dice Bilal –, anche se per farmi rispettare dai ragazzi che sono lì ho dovuto dire che ho qualche anno in più”. Il lavoro, intanto, gli ha dato l’autonomia necessaria a pagarsi l’affitto in un appartamento in pieno centro a Bologna, che condivide con altri ragazzi e studenti universitari.
Il futuro, dopo la vita vissuta in famiglia con Chiara e Diego, è meno incerto e qualche progetto si può anche tracciare: “Per adesso vorrei continuare il lavoro che sto facendo, magari anche con orari diversi. Così potrò avere il tempo di tornare a scuola e frequentare i corsi serali per qualificarmi meglio”. Poter contare sull’aiuto prezioso di una vera famiglia, anche ora che il progetto Vesta è finito, può fare la differenza.