Siaka e quel ritardo che gli ha cambiato la vita
Siaka Traore ha 35 anni e dal 2012 è in Italia dove, dopo essere fuggito dalla guerra civile in Costa d’Avorio, ha ottenuto protezione internazionale. Dal 2014 collabora regolarmente con coop. Abantu per svolgere il servizio di mediazione linguistico-culturale, in particolare nel servizio trasversale di mediazione del progetto SPRAR, coordinato da ASP Città di Bologna e svolto da diversi enti gestori. Ha studiato filosofia nel suo Paese d’origine, poi in Burkina Faso e Mali ed è poi riuscito a iscriversi all’Università di Parigi 1 e a raggiungere il tanto desiderato traguardo della laurea in filosofia. “In Italia non ho potuto iscrivermi all’Università – spiega con grande rammarico –. Volevano che presentassi i documenti che comprovavano che mi ero diplomato in Costa d’Avorio, ma come potevo farlo se la mia casa era stata bruciata ed ero dovuto scappare lasciando là tutto? Da rifugiato in Italia, studiavo e poi andavo a dare gli esami a Orléans”.
Come per tanti che hanno deciso di intraprendere questa professione, la sua vocazione è nata da una forte esperienza provata direttamente su se stesso. “I primi tempi dormivo in stazione a Bologna – racconta –. La sede di ASP che gestiva i richiedenti protezione era in via del Miliario e ci andavo sempre a piedi perché non volevo usare l’autobus quando non potevo permettermi di pagare il biglietto. Non conoscevo l’italiano e mi hanno dato un appuntamento per incontrare il mediatore necessario per assistermi nella preparazione della richiesta di protezione internazionale. L’incontro sarebbe dovuto avvenire in un luogo molto lontano dalla stazione. Sono arrivato in ritardo e lui se n’era già andato, mi hanno detto che avrei dovuto aspettare due settimane prima di poterlo incontrare di nuovo. Allora ho capito l’importanza fondamentale del mediatore e del conoscere la lingua – prosegue Siaka –. Ho deciso quel giorno che sarei andato a scuola per imparare l’italiano e potermela cavare da solo”.
Siaka conosce una decina tra lingue e dialetti parlati in Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Mali, Burkina Faso e Gambia e può così intervenire come mediatore linguistico-culturale in colloqui con beneficiari di molte provenienze. Dopo 18 mesi in una struttura SPRAR, al momento di doverla lasciare gli è stato proposto da coop. Abantu di seguire un percorso di formazione per diventare mediatore, viste le sue attitudini, la motivazione e il livello di istruzione. “Vengo chiamato ogni volta che c’è bisogno di un colloquio. – dice –. È un lavoro delicato e non bisogna mai distrarsi, in particolare nei colloqui di orientamento e accompagnamento legale, in cui il richiedente asilo deve scrivere la propria memoria da presentare poi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione territoriale. Dico sempre che questo lavoro non è un gioco, perché io non ho giocato per essere qui. Le traduzioni devono sempre essere fedeli e il mediatore, nell’interazione, non deve mai prendere una posizione, deve sempre essere obiettivo e riportare esattamente quanto viene detto. La soddisfazione più grande? Mi sento fiero quando qualcuno ha qualcosa di importante da dire per la sua vita e il mio intervento lo facilita nel comunicarlo. Andrò avanti finché ci sarà necessità di esercitare questa importante professione”.
Aminata, dagli orrori in Sierra Leone alla mediazione per l’accoglienza
Nella sua giovinezza in Sierra Leone ha vissuto gli orrori di una guerra civile durata per 11 interminabili anni. Aminata Fofana è stata bambina-soldato, costretta a fare e subire cose terribili, che da qualche anno racconta, durante incontri che si svolgono in tutta Italia, a studenti e a tutti coloro che vogliono ascoltare e capire. Nel nostro Paese è arrivata nel 2008, venendo dal Senegal, dove si era rifugiata fuggendo dal conflitto.
“Quando sono arrivata, non solo non sapevo parlare l’italiano, ma addirittura non sapevo proprio nulla dell’Italia, non mi sentivo nessuno e avevo bisogno di trovare le persone giuste a cui raccontare perché ero qui – spiega Aminata –. Volevo trovare un modo per inserirmi e soprattutto mi rendevo conto che un rifiuto o una incomprensione potevano decidere sulla direzione che avrebbe preso la mia vita”.
Oggi Aminata vive stabilmente in Italia (le è stato riconosciuto l’asilo politico), ha un marito e due figli, lavora come cameriera in un albergo e, part-time, come mediatrice linguistico-culturale, in particolare nell’ambito del servizio trasversale di mediazione del progetto SPRAR. In Sierra Leone non è più tornata, ma di recente è riuscita a ritrovare sua madre, di cui non aveva notizie da 20 anni. Nel suo percorso in Italia, dopo avere imparato l’italiano, ha cominciato dal 2015 occasionalmente a prestare aiuto a richiedenti asilo che facevano richiesta di protezione. Dal 2017 questa disponibilità e questa motivazione sono diventate un lavoro, dopo la formazione specifica acquisita tramite Abantu e Lai-momo. Oggi l’attività di mediatrice di Aminata si concentra soprattutto negli incontri predisposti dal servizio di accompagnamento legale in cui gli operatori legali assistono i richiedenti asilo nella redazione della loro memoria da sottoporre alla Commissione territoriale per la protezione internazionale, nell’accompagnamento in occasione dell’audizione in Commissione e nella fase di ricorso verso un eventuale diniego.
Aminata parla tante lingue e dialetti, appresi sia in Sierra Leone sia nei suoi spostamenti nei Paesi vicini a causa della guerra. Tra questi il limba, il mandinka, pidgin english, dialetti nigeriani, il creolo della Sierra Leone…” Per queste lingue oggi ci sono tante richieste – prosegue -, mentre quando io sono arrivata in Italia erano poco parlate e quindi non c’era quasi nessuno che potesse tradurre, tanto che io per poter andare in audizione in Commissione ci ho messo tre anni, perché ho dovuto prima imparare l’italiano per poter affrontare il colloquio. Oggi, scherzando, dico ai richiedenti asilo che arrivano che loro sono stati fortunati perché adesso ci sono io. Questo lavoro mi dà tantissime soddisfazioni, soprattutto quando i beneficiari, quasi increduli, si rendono conto che c’è una sierraleonese che parla la loro lingua. È evidente il loro sollievo, il fatto che possano farsi capire li fa sentire più sicuri”.