Cent’anni fa non esistevano passaporti. Oggi sul fondo del Mediterraneo giacciono i corpi di 50mila emigranti annegati tentando di entrare senza visto in Europa. Come siamo passati dagli anni della libera circolazione con le ex colonie alla progressiva illegalizzazione delle migrazioni? E soprattutto, come ne usciremo? Dopo dieci anni di ricerca sul campo, il giornalista Gabriele Del Grande riscrive la storia dell’immigrazione in Europa e pubblica Il secolo mobile. Storia dell’immigrazione illegale in Europa (Mondadori 2023), libro poi diventato anche un monologo multimediale prodotto da Zalab.
“I primi a limitare la libertà di movimento furono gli Stati Uniti nel 1924, quando bandirono l’immigrazione italiana, slava ed ebraica attraverso il primo sistema di visti”, racconta Gabriele Del Grande. “Allora gli indesiderati eravamo noi, ma si fa presto a dimenticare”. Lo spettacolo, organizzato da Cidas nell’ambito del Progetto SAI del Comune di Bologna, è previsto a Bologna domenica 23 giugno alle ore 21 al Cinema Bristol, in via Toscana 146, nell’ambito del programma metropolitano organizzato attorno al 20 giugno Giornata mondiale del rifugiato (qui il link al programma completo).
Gabriele, quali sono le date di inizio e di fine del Secolo mobile? Cosa succede in quei due momenti?
“La data d’inizio è il 1914, quando comincia la Grande guerra e finiscono i 50 anni d’oro della libera circolazione globale. Anni in cui 40 milioni di europei emigrarono nelle Americhe senza avere mai visto un passaporto. Europei, attenzione. Perché a quei tempi gli unici africani, arabi o indiani autorizzati a spostarsi da un continente all’altro erano i soldati delle truppe coloniali. Gli stessi grazie ai quali francesi e inglesi sconfissero la Germania sul fronte occidentale. Ma questa è un’altra storia. La data di fine invece è il 2050, una data che ci permette di avere un’idea del mondo che sarà quando, tramontato il monopolio occidentale sulla tecnica, Cina e India guideranno i paesi più ricchi davanti a USA e UE. Indonesia, Messico e Brasile siederanno al G7. L’Unione africana sarà in pieno boom economico. Metà umanità sarà asiatica, un quarto nera e appena il 5% europea. Con un terzo delle nostre famiglie che avrà almeno un antenato giunto dall’Africa o dall’Asia”.
In Europa, quando sono iniziate le restrizioni alla libertà di movimento? Chi è colpito di più da queste restrizioni, e perché?
“In Europa la libertà di movimento con le ex colonie, finiti i trent’anni del boom, fu gradualmente limitata a partire dalla crisi del 1973, per poi essere abolita con il trattato di Schengen del 1985, e la caduta del muro nel 1989. Da allora in tutta l’UE si è imposto un regime di visti che da un lato liberalizza l’immigrazione da Est Europa e Sud America, e dall’altro vieta le partenze dei ceti popolari da Africa, Asia e Caraibi. Il criterio è classista e razziale: l’idea, neanche troppo celata, è che in quanto bianchi e cristiani, est-europei e latino-americani, questi migranti siano più facilmente assimilabili di neri, arabi, musulmani ed asiatici. Peccato che, una volta vietati per legge, i viaggi dei poveri dall’altra riva abbiano iniziato fin da subito ad essere rivenduti sul mercato nero. Dal 1991 hanno attraversato il Mediterraneo tre milioni e mezzo di senza visto, e altrettanti sono attesi negli anni a venire”.
Nel secolo mobile, l’apartheid in frontiera è di fatto ancora l’ultima forma di segregazione razziale legalizzata. Com’è possibile che questo avvenga, in un’epoca che – almeno a parole – dà così tanta importanza al rispetto dei diritti umani?
“Per la stessa ragione per la quale è possibile assistere con indifferenza a un genocidio in corso. I 40 mila morti di Gaza non ci dicono niente per lo stesso motivo per il quale non ci dicono niente i 50 mila morti mangiati dai pesci sul fondo del Mediterraneo. Gli uni e gli altri disumanizzati da un sentire ancora ben radicato in Europa, che dà un valore diverso alle vite degli uni e degli altri, come se non ci fossimo mai liberati dai fantasmi del razzismo scientifico del secolo scorso”.
Visti i tempi che stiamo attraversando, azzerare gli sbarchi attraverso la liberalizzazione dei visti sembra una proposta quasi utopica. Secondo te, c’è speranza che prima o poi questo avvenga? In che modo?
“Il tema non è cosa sia realizzabile. Ma cosa sia giusto. Anche nell’America degli anni Sessanta porre fine alla segregazione pareva impossibile. Così come in Sudafrica per l’apartheid fino agli anni Novanta. Eppure, come è andata a finire? Per carità, tra mille contraddizioni, perché nei due paesi il razzismo è tutt’altro che scomparso. Però quelle leggi vergognose sono state abrogate. E non perché la società fosse pronta. Ma perché una minoranza combattiva ha saputo opporre la propria utopia a una narrazione egemone ma ingiusta. Oggi in Europa è lo stesso. Con una minoranza che prova a contrapporre l’utopia della libera circolazione a una narrazione egemone, quella dei confini, che non solo non è più al passo coi tempi, ma che è la prima causa di quei 50 mila morti in fondo al mare. A meno che non crediamo che a ucciderli sia stata la tempesta o gli scafisti cattivi, e non l’agenda politica di una classe dirigente che in modo trasversale, a destra come a sinistra, da quarant’anni mantiene l’apartheid in frontiera”.
Ormai l’Europa non è più tra le mete più ambite dalle persone che si vogliono spostare, mentre in parallelo la popolazione europea invecchia. In futuro ci troveremo a voler attrarre i migranti, invece di respingerli?
“Già oggi, a livello globale, solo una persona su quattro sceglie l’Europa. Il Golfo arabo da solo ha più immigrati dell’UE. L’immigrazione interna africana supera di cinque volte quella africana in Europa. Per non parlare della mobilità interna in India, Cina e Sud Est che coinvolge centinaia di milioni di persone. La Cina poi, avviata in un irreversibile inverno demografico dopo decenni di politiche del figlio unico, avrà presto bisogno di decine di milioni di immigrati per salvare l’economia. E dopo la Cina sarà la volta di altri paesi emergenti. Tantoché paradossalmente in futuro l’UE potrebbe ritrovarsi non più con il problema di come tenere fuori le persone, bensì di come attirarne abbastanza. Per il semplice motivo che non saremo più i soli ad averne bisogno”.
Veniamo al monologo. Perché ha senso guardare i fatti da una prospettiva futura? Questo su cosa ci permette di riflettere?
“La prima parte del monologo è storica: da Ellis Island ai bastardi del Reno, dallo sbarco dei giamaicani del Windrush a Londra ai riots di Notting Hill, dalla guerra d’Algeria alla notte nera di Parigi, passando dalla crisi di Berlino Est e i gastarbeiter turchi, fino a capire come Schengen e la caduta del muro abbiano spinto un pezzo di mobilità a realizzarsi attraverso il contrabbando in mare. Poi però il punto di caduta è sul futuro. Perché è troppo comodo commemorare. Dire: io sapevo, io sto dalla parte giusta. Cinquantamila morti dopo arriva il tempo di proporre soluzioni. Di inseguire un’utopia. Insieme”.