“Mi ricordo ancora il mio primo giorno di scuola in Italia. Avevo 14 anni e, appena entrata in classe, mi sono sentita dire dall’insegnante: ‘Ma tu non sembri africana, potresti essere una nostra siciliana’. All’inizio non ho detto niente, quello era un baratto che in un qualche modo mi faceva comodo. Le ho risposto solo tempo dopo, scrivendo un tema in cui raccontavo che non mi interessava essere considerata italiana. Rivendicavo la mia origine”.
Gabriella Ghermandi è nata ad Addis Abeba nel 1965, figlia di un padre italiano – di Crevalcore, piccolo paese in provincia di Bologna – e una madre eritrea, che da giovane ha subito le leggi razziali. I due si conoscono in Etiopia, dove si sposano: nasce Gabriella, che cresce faticando a trovare una sua identità. “In tutta la mia infanzia ho subito la narrazione della grandezza dell’Occidente. Arrivata qui a Bologna, ho capito che eravamo vittime di un mito, e ho preso consapevolezza di tutta la storia del mio paese”.
Oggi Gabriella Ghermandi è scrittrice, narratrice e musicista. Il suo primo romanzo, Regina di fiori e di perle (Donzelli), ha venduto oltre tremila copie ed è diventato uno spettacolo. Poi dalla scrittura è passata alla musica fondando l’Atse Tewodros project, l’unico gruppo italo-etiope attualmente esistente, che si esibirà mercoledì 19 giugno a Bologna in piazza Lucio Dalla, in occasione della manifestazione La piazza dell’accoglienza , nell’ambito della rassegna del 20 giugno Giornata mondiale del rifugiato organizzata dal Comune di Bologna e da Asp Città di Bologna nell’ambito del progetto SAI (qui il link al programma completo). “Tutto quello che ho creato nasce per tracciare un ponte tra là e qua”, racconta.
Gabriella, qual è stato il primo linguaggio artistico a cui ti sei avvicinata?
“La scrittura è stato il primo linguaggio che ho usato, quello che sento più mio. Ho iniziato a scrivere alle superiori, come risposta alla migrazione. Quando sono arrivata a Bologna per me è stato un risveglio: in Italia ho trovato tutto quello che non c’era in Etiopia, ma dall’altra parte mancava tutto quello che c’era là. È stato lì che ho capito che avevo alle spalle un paese con 3mila anni di storia: quando ci sedevamo al caffè, i miei zii raccontavano e andavano indietro di 20 generazioni, intersecando i fatti storici con le vicende personali dei miei antenati. A Bologna, invece, ho trovato il vuoto. Una delle cose che mi ha colpito subito è stata la separazione tra le persone, la solitudine. Solo allora ho iniziato ad avere paura del buio, prima non mi era mai successo. Così in me ha iniziato a maturare un dubbio: una società evoluta, come si presenta la società occidentale, può davvero essere una società così sola?”
Come sei riuscita a condividere queste tue riflessioni e a renderle patrimonio di tutti e tutte?
“C’è un romanzo che sto leggendo proprio ora, La donna che veglia sul mondo di Linda Hogan, l’unico libro tradotto in italiano di una nativa americana. L’autrice racconta che, durante la colonizzazione, le persone si facevano male fisicamente perché non avevano parole nella loro lingua per esprimere tutto il dolore che stavano provando. Ecco, io ho avuto la fortuna di avere una lingua, l’italiano, per potermi esprimere. Nel 1994 sono tornata in Etiopia, e lì è cominciata la mia guarigione. È stato allora che ho iniziato a scrivere in modo professionale”.
Parliamo della tua musica. Quando è nata l’idea di creare una band italo-etiope?
“Una volta sono stata invitata in Etiopia a realizzare uno spettacolo in occasione del 75° anniversario dell’eccidio di Addis Abeba, strage avvenuta dopo il fallito attentato contro l’allora viceré Rodolfo Graziani. Per quello spettacolo avevo recuperato vari canti tradizionali etiopi, canti di guerra: gli anziani mi chiesero di continuare a diffonderli, portandoli in giro per il mondo. Così è nata l’idea di creare un gruppo metà italiano e metà etiope, per cantare quelle storie, cantare la libertà, un valore che accomuna tutti. Nel 2012 è nato il gruppo Atse Tewodros project, il primo disco è uscito nel 2013, e nel 2018 ci siamo imbarcati in un nuovo progetto, Maqeda: l’album è uscito nel 2022, dopo anni di ricerche, ed è interamente dedicato alle figure femminili della storia e della mitologia etiope”.
Che ruolo ha la donna nella società etiope?
“In Etiopia le donne sono da sempre abituate a condividere il potere con gli uomini. In Italia, quando si parla di femminismo, si parla di lotta, di martirio. In Etiopia questo non esiste, le donne ricoprono da sempre ruoli di grande potere. Nei nostri miti fondativi noi non abbiamo un nostro Enea, abbiamo la regina di Saba: anche oggi il nostro presidente è donna, così come molti ministri. Emblematico è il fatto che, secondo la classifica sulla parità di genere nei vari paesi del mondo (Global Gender Gap Report del 2023, ndr), l’Italia sta sotto l’Etiopia di tre posizioni. Nel nostro album abbiamo deciso di celebrare le donne etiopi: la regina di Saba, le regine candace… C’è un brano su un’etnia matriarcale, dove l’eredità viene passata per via femminile. E poi naturalmente c’è Lucy, l’ominide, che come si dice in Etiopia è stata la prima che ha avuto il coraggio di mettersi in piedi. Ogni brano è rappresentativo della musica di una zona e di un’etnia diversa”.
Narrare ha un significato particolare in Etiopia, un paese dove la trasmissione orale ha ancora un’importanza forte. Cosa significa narrare, oggi?
“Nella nostra cultura, scrivere, narrare e cantare sono tre forme del raccontare. Una volta era così anche nella cultura occidentale, e così in Italia: mio padre è cresciuto in una famiglia contadina, che viveva senza il riscaldamento, naturalmente, e le serate si passavano a spannocchiare raccontando le storie degli spiriti, le storie del ‘dievel’, il diavolo in dialetto bolognese, per far sì che i bambini non si allontanassero dal focolare e rimanessero vicino al caldo. Oggi il narrare in un qualche modo esiste ancora, ma l’abbiamo un po’ ingessato, come se tutto dovesse stare all’interno di un contenitore preciso. Dovremmo ritornare a narrare, ritornare a raccontare storie, con spontaneità. C’è troppa cerebralità, troppa poca terra. Le cose sono più semplici”.
Foto: Mario Di Bari