Il più serio e concentrato nella parte è Zacaria, cittadino senegalese di 27 anni. A chi gli si siede davanti, dall’altra parte del lungo tavolo della Commissione che deve valutare se accogliere o no le richieste d’asilo, dice: “Io sono funzionario della Questura e ti faccio domande per sapere perché sei qui. Poi ti prenderò anche le impronte digitali e ti faremo le foto. Quando avrai fatto tutto, ti darò un cedolino che ti serve mentre aspetti il permesso di soggiorno. Ricordati di portarlo sempre con te, è importante”.
Un gioco di ruolo, ma senza troppa voglia di scherzare
È un gioco, sì, ma i partecipanti negli uni e negli altri ruoli non hanno molta voglia di scherzare: i richiedenti asilo perché hanno vissuto o stanno vivendo il lungo iter per ottenere una forma di protezione; gli italiani perché, costretti a calarsi in una situazione sconosciuta e che si pensa di non dover mai affrontare, percepiscono subito la difficoltà del contesto, delle domande a cui sono costretti a rispondere e degli atti che devono svolgere. È un gioco, ma il sorriso si spegne quando ti vengono prese le impronte e vieni sottoposto a foto-segnalamento di fronte e di profilo.
È un gioco per capire che cosa provano i richiedenti asilo nei vari momenti del percorso, ad esempio quando si trovano davanti alla Commissione che è incaricata di valutare la concessione o meno di una forma di protezione. Non c’è nulla che faccia comprendere gli Altri quanto il mettersi nei loro panni, e questo è stato lo scopo di “Al posto tuo”, il gioco di scambio di ruoli organizzato dall’associazione Arca di Noè nel centro SPRAR Casa Rivani in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Durante l’open day, i cittadini hanno potuto immaginare che cosa si può provare davanti al tavolo di una commissione che può essere decisamente più inquietante di quella di un esame di maturità. Perché qui in gioco c’è la possibilità di rimanere sul territorio italiano o di tornare da dove sei venuto.
Quando l’italiano rischia di sbagliare le risposte…
Agli italiani è stato distribuito una sorta di copione con delle “storie tipo” in cui immedesimarsi. Conviene seguire il canovaccio perché chi va a braccio rischia di sbagliare le risposte. Di fronte a una “finta” nigeriana che dice di essersene andata dal suo Paese perché non aveva più alcun parente e non sapeva come sopravvivere, Mamadou, guineano di 23 anni, scuote la testa: “Secondo me non passerai l’esame, il motivo di uscita dal tuo Paese deve essere più importante: perché c’è la guerra, perché rischi di essere incarcerata, per un problema della famiglia o religioso, ma non per un motivo economico”. Gli italiani fanno fatica a immedesimarsi: alcune domande relative alle origini etniche, alle idee politiche o alla religione praticata sembrano troppo intrusive, una violazione della privacy. “Ma io devo sapere perché sei qui – ribatte Mamadou – Con questo gioco gli italiani capiscono che gli stranieri arrivano qui perché la vita è pericolosa nel loro Paese”.
“L’Italia? Accogliente e civile”
L’Italia è considerata civile e accogliente dai richiedenti asilo. “Ho avuto diverse esperienze in Paesi in cui gli stranieri non vengono affatto aiutati – dice Waqas, pakistano di 25 anni, arrivato da tre anni – Sono stato in Iran, sempre sulla strada, e in Ungheria, dove vogliono soldi per farti entrare. Io ho dovuto pagare mille euro che mi ha mandato un amico”. Interviene Zacaria: “In Italia la polizia non ti ferma per strada perché vede che sei straniero, a meno che tu non stia facendo qualcosa di male. Io ora lavoro come guardiano notturno, ma ho fatto corsi di formazione professionale per fare il ‘buttafuori’. È un lavoro che facevo anche nel mio Paese e che mi piace molto perché richiede disciplina. Occorre testa, non solo forza: parlare poco e rispettare le regole”.
“Così potete capire quant’è lungo e duro il cammino”
“Spero che questa esperienza abbia fatto capire a chi ha partecipato quanto è difficile arrivare fino a qui e sostenere tutte le procedure per ottenere asilo – spiega Casimir, ventenne del Camerun, con le idee molto chiare e la passione di scrivere poesie –.Vengo da un Paese in cui si sentono ancora fortissimi gli effetti della colonizzazione inglese e francese, sono passato dal Ciad e dalla Libia, l’Italia è un paese civile perché il governo ha fatto il progetto SPRAR che serve all’integrazione totale, offrendo anche la scolarizzazione e la formazione professionale. Vorrei che le persone capissero quanto è lungo e difficile l’iter per ottenere lo status di rifugiato. A volte si rimane delusi perché si fanno tanti sacrifici per imparare la lingua e fare formazione e poi ci si vede dare un responso negativo dalla commissione. Un mio fratello africano si è dato la morte per questo”. Casimir, che in Italia ha conseguito la licenza media e sta seguendo corsi di lingua, vorrebbe fare l’imbianchino come faceva in Camerun, ma pensa anche che questo non gli darebbe un reddito costante perché “qui c’è l’inverno e in quei mesi nessuno fa imbiancare la casa”: quindi spera di poter lavorare nel settore dell’assistenza alle persone diventando operatore socio-sanitario.
“I nostri sogni e la ricerca di un lavoro”
“Questo gioco è come teatro – spiega Samba, gambiano di 26 anni – però è proprio così che succede davanti alla Commissione. Prima ti spiegano come funziona e poi ti fanno tante domande”. Il richiedente asilo viene informato del contenuto della Convenzione di Ginevra secondo cui gli Stati firmatari si impegnano a proteggere lo straniero che, “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. La Commissione potrebbe non concedere lo status di rifugiato ma riconoscere la protezione sussidiaria a coloro che, se tornassero nel loro Paese, correrebbero comunque gravi rischi di essere condannati a morte o torturati o trovarsi in situazioni di conflitto. Infine, il richiedente viene informato che, nel caso non venga accolta la domanda di protezione internazionale, la Commissione potrebbe trasmettere gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno nel caso si ravvisino gravi motivi di carattere umanitario. “Io non sono mai andato a scuola nel mio Paese – prosegue Samba – e sono contento perché qui ho imparato a scrivere in inglese e in italiano. Ho fatto anche un corso di formazione come aiuto in cucina e dopo l’estate mi chiameranno per fare questo lavoro”.
Anche Fatima, nigeriana di 26 anni, in Italia da un anno e mezzo e madre di una bimba di un anno nata a Bologna, vorrebbe fare la cuoca: “Ho imparato a cucinare i piatti italiani, oltre a quelli africani, e ora so fare un po’ di tutto, dal cous cous alle lasagne”. Poi racconta che ha un’altra bimba di sei anni, rimasta in Nigeria con il nonno, che vorrebbe far venire in Italia. Ci sono contrasti di religione. “Io sono cattolica – dice la ragazza, che porta al collo un vistoso rosario – mentre nella mia famiglia sono tutti musulmani. Qui mi sento libera di praticare la mia fede”. È ospite di un centro per donne con figli, come altre mamme che hanno partecipato al gioco di scambio di ruoli. Difficile però calarsi nei panni di donne come l’ivoriana madre di cinque figli fuggita dal suo Paese per ragioni politiche insieme alle due figlie femmine, la più grande di 24 anni e la più piccola di tre, ora in ansia per i tre maschi rimasti in Costa d’Avorio o come la nigeriana Precious, 18 anni, che silenziosa culla la sua bimba di undici mesi. Sono storie che ci si può solo immaginare, ma fa bene e ci fa sentire più vicini avere l’opportunità, anche solo per gioco, di mettersi al posto loro.